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E’ dunque superato il primo passaggio della riforma costituzionale riguardante in particolare il Senato della Repubblica e il Titolo V.  Il testo presenta luci ed ombre e comunque, se definitivamente approvato, sarà  il tempo a dirci molto di più sulla sua funzionalità.

Ma voglio qui soffermarmi su due questioni della vicenda della riforma istituzionale, con particolare riguardo al Senato, che possono farci capire come si sta procedendo su questo terreno e cosa possiamo aspettarci in futuro.

Innanzitutto questa riforma in cammino appare il prodotto quasi casuale di una strategia politica volta soprattutto a piantare bandierine, a produrre risultati simbolici. Matteo Renzi, in una intervista a Ballarò (nono minuto), nel marzo 2013 affermava che “la priorità non [era] sistemare le istituzioni”. Poi quella del  Senato è divenuta la madre di tutte le battaglie. Bene che si sia comunque arrivati a metter mano all’innovazione costituzionale, si potrebbe rilevare. Certo, anche se il fatto che quella riforma stia scaturendo soprattutto dalla volontà di portare a casa un trofeo pone qualche dubbio sui passi (o non passi) successivi nel campo delle riforme delle istituzioni. Così come non rassicura che ad un testo almeno decente si sia giunti faticosamente dopo che si era partiti da un progetto del governo la cui lettura in alcuni punti (vedi la composizione della camera alta) faceva pensare (e magari sperare) di essere su “Scherzi a parte”. E come ha scritto Luca Ricolfi (La Stampa), “Pensare che problemi di enorme complessità e delicatezza … si possano affrontare mediante un negoziato fra partiti, gruppi parlamentari e fazioni varie, senza un disegno coerente e meditato, con la sola logica delle concessioni reciproche, significa non avere la minima idea degli enormi limiti cognitivi della politica, tanto più di questa politica, con questi politici, nell’Italia di oggi”. Eppure questo è quanto è accaduto. E ancora oggi, dopo essere giunti al primo traguardo, ci si ostina da parte del governo a mettere l’accento sul dato simbolico piuttosto che funzionale della riforma. Nella sua ultima intervista televisiva (Inonda, 7/8/14), il Presidente del Consiglio, marzullianamente facendosi una domanda e dandosi una risposta, ha ribadito che la riforma costituzionale rappresenta soprattutto il messaggio ai cittadini che la politica sa rinunciare a qualche cosa (cioè il solito mantra del senato gratis, che poi sappiamo che gratis non sarà).

Una seconda osservazione riguarda il contenuto e in particolare una delle questioni più dibattute, ovvero la modalità di scelta dei senatori. E’ legittimo prevedere una elezione di secondo grado. Tuttavia, nelle affermazioni provenienti dal governo, in particolare da Renzi e dal ministro Boschi, è possibile cogliere l’idea che l’assoluta indisponibilità a prevedere una forma di elezione diretta sia direttamente collegata alla volontà di sminuire lo status del Senato, non tanto in relazioni alle sue funzioni, quanto proprio al suo valore come istituzione. Insomma, la “navetta” è colpevole delle lungaggini del processo legislativo (vero in parte, vi sono anche altre ragioni, da ricercare nei difetti dell’esecutivo e della sua capacità di controllare la maggioranza), dunque il Senato appare soprattutto disfunzionale e quindi va “punito”. E già che lo si deve punire, è bene che i senatori non siano nemmeno remunerati per il lavoro che svolgono, il che consente di dire ai cittadini che finalmente si può tagliare un importante costo della politica. Dunque, ci mandiamo eletti regionali e locali che già prendono uno stipendio. Altra ragione per cui è bene che i senatori non siano eletti direttamente.

Tra le ragioni serie che sono state addotte, anche da studiosi, per non avere un senato elettivo vi è quella per cui un senato legittimato dal voto popolare sarebbe incoerente con un bicameralismo non più paritario, con un bicameralismo asimmetrico. Questa affermazione, però, è debole sul piano empirico (ad esempio sia il senato spagnolo, sia quello belga, come l’Italia casi di camere alte rappresentative della dimensione territoriale in sistemi che si sono decentralizzati a partire da uno stato unitario, prevedono una quota preponderante di senatori eletti direttamente)  e anche su quello logico, poiché non si vede perché il fatto che i cittadini possano scegliere chi rappresenterà la propria regione debba necessariamente accompagnarsi con un bicameralismo paritario, dal momento che le due elezioni, per la Camera e per il Senato, avrebbero contesto e finalità diverse e potrebbero tenersi in momenti diversi. A questo proposito mi chiedo perché non sia stata presa seriamente in considerazionel’intelligente proposta di Augusto Barbera di prevedere una elezione diretta dei senatori a livello regionale, contestuale all’elezione dei consigli regionali. Si sarebbe trattato di un compromesso ragionevole e che avrebbe evitato il pericolo “partitocratico” insito nella scelta fatta di individuare i senatori tra i consiglieri regionali. Già, scelta partitocratica. E non solo. Sorprende, infatti, che non sia stato oggetto di dibattito il portato della norma per eleggere i senatori, ovvero che il senato sarà composto da un personale politico che, ancor prima dei gravissimi scandali emersi, come quello della Regione Lazio, ma non solo, è stato giudicato da molti osservatori e ormai da decenni di livello piuttosto scarso e che quel personale sarà comunque inevitabilmente individuato dalle segreterie dei partiti. Una forma di elezione diretta, ad esempio secondo il suggerimento citato di Barbera, avrebbe almeno creato qualche incentivo per portare un personale con una maggiore autorevolezza nella camera alta. O forse un Senato da punire non se lo merita?

In conclusione, va dato atto al governo Renzi di aver intrapreso davvero la strada per superare l’assurdità tutta italiana del bicameralismo paritario, sottraendo al Senato la fiducia e prevedendo un suo intervento più limitato nel processo legislativo (anche su questo ci sarebbero osservazioni da fare, ma magari in una prossima puntata). Tuttavia, il come del processo di riforma e taluni suoi risultati lasciano molto perplessi e non si tratta di essere schizzinosi di fronte ad un risultato comunque raggiunto, quanto di essere preoccupati di ciò che avverrà in futuro. Poiché il superamento del bicameralismo paritario costituisce un primo passo, importante ma ampiamente insufficiente, nella prospettiva della necessaria (se vogliamo avere un sistema politico decentemente funzionante) trasformazione del sistema di governo, cosa possiamo aspettarci da un modo di procedere di questo tipo? Qualche dubbio sul domani, se l’approccio non cambierà, mi pare sia lecito.

3 thoughts on ““Trent’anni che se ne parla”. Dunque qualunque modo e qualunque contenuto devono piacerci?

  1. Il fatto è signor Guido che non è stato preso a modello niente. Esistono 3 senati territoriali in Europa (in Paesi per dimensione e complessità paragonabili al nostro): Germania, Francia e Spagna. Nel primo si è voluto rappresentare i governi (anche per la necessità di concordare al centro le linee guida delle legislazioni concorrenti) e dunque i 69 del Bundesrat sono espressione solo delle maggioranze di governo dei singoli Laender. In Francia si è voluto dare voce alle piccole realtà numerosissime ma schiacciate demograficamente dai grandi centri urbani e per questa ragione sono i consiglieri comunali, dipartimentali e regionali a eleggere i senatori, garantendo rappresentanza anche alla “Francia profonda”. In Spagna l’80% è eletto dal popolo.
    La nostra soluzione è – come sempre – ambigua, dal momento che non ha la linearità logica di alcuna delle tre citate sopra

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