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Uno spettro si aggira per la nostra stanca Penisola: la sgrammaticatura politica.

Due brevi osservazioni a questo proposito. La prima concerne il discorso politico, in particolare nella forma adottata dalla nuova o comunque più giovane generazione di politici (non che tale forma non possa essere attribuita a politici più navigati, ma in quella generazione appare in tutta la sua evidenza); la seconda la propaganda governativa anti-opposizione.

Veniamo alla prima questione. Ascoltando i giovani politici che appartengono al governo o alla maggioranza e quelli dell’opposizione, dal M5S a Fratelli d’Italia alla Lega e al resto della destra, si coglie una duplice e ricorrente modalità di esprimere le proprie posizioni: semplicismo e banalizzazione da un lato, ideologismo dall’altro. Nella gran parte dei casi ogni problema e le sue possibili soluzioni sono presentati in una forma ultrasemplificata e la soluzione proposta è offerta come ovvia, scontata, tale per cui solo la malafede può impedire di coglierne la validità. In altre parole, il fondamento di ogni discorso è un senso comune che poggia su percezioni generalizzate, e che come tutte le percezioni sono fallaci nella misura in cui omettono, dilatano o ridimensionano, creano nessi apparenti, ma non necessariamente esistenti, e così via. Insomma, non molto più del discorso da bar. Al tempo stesso – e passiamo così al punto dell’ideologismo – lo schemino ultrasemplificato di interpretazione della realtà e della propria azione (effettiva o potenziale) sulla realtà fornisce il riferimento al quale ogni accadimento, valutazione, spiegazione deve aderire. Cioè, date le premesse – due o tre ideucce sul mondo – ogni elemento della realtà deve essere coerente con quelle premesse, non può evidentemente metterle in discussione e se potenzialmente potrebbe farlo, viene neutralizzato attraverso una torsione semantica che ricrea l’armonia. Tipico procedimento della mentalità ideologica, non pragmatica. In questo modo, naturalmente, non si coglie la complessità dell’universo con il quale ci si confronta e non si apprende nulla dall’esperienza. Il tutto, poi, è rafforzato da modalità di utilizzo del corpo, della voce, del linguaggio, che portano ad esprimere un’assertività che non contempla dialogo, ma solo esposizione del verbo, affermazione di verità, assolutezza del giusto. Ma se la politica, la politica democratica, implica processi dialogici, elaborazione concettuale dei problemi e delle possibili soluzioni attraverso lo scambio di conoscenze e esperienze, deliberazione che non è mera decisione, questo modo di partecipare al discorso pubblico, e di conseguenza forgiarlo, ha davvero poco a che fare con la politica.

La seconda questione concerne invece il rapporto tra governo e opposizione. In una democrazia ci si aspetta che il governo governi, spiegando le proprie scelte, magari con modalità non troppo banali, ché la semplicità non è banalità, e l’opposizione critichi, facendo conoscere le proprie posizioni in diverse arene, nella prospettiva poi di sostituirsi a chi governa. Se così è, non sono molto funzionali al buon gioco democratico una maggioranza e un governo che all’interno della propria campagna permanente – imperativo ormai di ogni governo occidentale – dedicano almeno la metà dei propri sforzi comunicativi alla denigrazione dell’opposizione, sbeffeggiandola quando fallisce nei suoi propositi – i quali perché falliti vengono quindi equiparati a inutili teatrini – e giudicando ad ogni piè sospinto le intenzioni sottostanti alla sua azione, arrivando addirittura a stigmatizzare l’uso dell’aula parlamentare come strumento per dare risonanza nel paese alle proprie posizioni (da che pulpito, poi), quando questa è proprio una delle funzioni del dibattito parlamentare. Sembra quasi che accanto all’illustrazione in positivo della propria azione, governo e maggioranza ritengano altrettanto importante neutralizzare l’opposizione come potenziale alternativa, fondando così parte della propria forza sulla narrazione di un’assenza di alternativa. Ma l’opposizione e la possibilità di alternanza sono elementi preziosi per una democrazia che funzioni, cercare di neutralizzarle per rafforzare il proprio potere è molto pericoloso.

Entrambe le questioni possono, a mio avviso, essere ricondotte ad un elemento di fondo, ovvero, il fatto che, a fronte della lunga crisi dentro alla quale ci stiamo muovendo e agli evidenti fallimenti della fase della Prima Repubblica, chi si cimenta con la politica odierna lo fa con una modalità sostanzialmente a-politica. Ovvero ritiene i processi della politica, che in realtà costituiscono un nutrimento per la comunità politica medesima, siano orpelli fastidiosi: poiché diagnosi, prognosi e terapia sono evidenti, non resta che agire e chiunque si frapponga all’azione è solo un inconveniente da neutralizzare. E in questo renziani, grillini e leghisti – per citare le forze maggiori – non mi paiono diversi.

In realtà si potrebbe continuare sul tema delle sgrammaticature politiche che derivano da questa impostazione, ma le due ricordate mi paiono particolarmente rilevanti. E gravi. Come grave mi sembra che a rendersi conto di tutto questo non siano poi in tanti.

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