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Delle due consultazioni che si sono tenute domenica, in Emilia Romagna e in Calabria, quella della tradizionale regione rossa presente alcuni caratteri di netta rottura piuttosto interessanti.

Innanzitutto l’astensione. La diserzione delle urne è stata alta in entrambe le regioni, ma molto più netta tra gli emiliano-romagnoli: rispetto alle regionali del 2010 il 15 punti percentuali  in meno in Calabria, il e 30 punti in Emilia Romagna (più di un milione di voti in meno) ; rispetto alle europee di maggio (anche queste elezioni di second’ordine come quelle regionali, anche se giocate su tutto il territorio nazionale) rispettivamente  un po’ meno di 14 punti e un po’ più di 32 (anche in questo caso attorno al milione di voti perduti). Come si può spiegare un tale crollo in una regione che ha sempre presentato alti livelli di partecipazione al voto, ben sopra alla media italiana? I fattori ipotizzabili sono molteplici.

Il fatto che le consultazioni si siano tenute solo in due regioni non spiega l’entità considerevole del dato emiliano, non solo posto a confronto con la Calabria, ma anche con altre elezioni regionali tenutesi in solitaria o quasi. Il Molise, ad esempio, affrontando il voto regionale nel 2001, 2006 e 2011 ha ottenuto circa il 65% nei primi due casi e il 59% nell’ultimo, perdendo nell’ultima consultazione solo alcuni punti percentuali rispetto alle più prossime e sempre di second’ordine elezioni, le europee del 2009 (61% Campobasso, 67% Isernia). Nel 2013, andata al voto insieme a Lombardia e Lazio ha totalizzato più del 61% dei votanti. Lombardia e Lazio, in quell’occasione, hanno raggiunto rispettivamente più del 76 e del 71 per cento. In Basilicata nel novembre 2013 ha votato il 47,7%, ventidue punti in meno rispetto alle politiche del febbraio dello stesso anno, ma le politiche raccolgono sempre una partecipazione significativamente più alta, diciannove in meno rispetto alle europee di quattro anni prima, ma solo nemmeno due punti in meno delle europee tenutesi l’anno successivo. Dunque, la solitudine non spiega molto.

Una seconda ipotesi che si può avanzare riguarda la non competitività del contesto emiliano-romagnolo, dove vince sempre la sinistra. Ma, appunto, è sempre stato così. Si potrebbe rilevare che ora la destra è particolarmente debole e poco attraente, anche se ciò avviene non perché – come preteso da alcuni – si sarebbe presentata divisa. La destra, infatti, non era affatto divisa, dal momento che Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia erano coalizzati dietro lo stesso candidato presidente e il fatto che gli irrilevanti Ncd-Udc (che insieme hanno ottenuto il 2,66% e nessun consigliere) corressero da soli difficilmente potrebbe essere considerato un indicatore di divisione. La destra emiliano-romagnola, piuttosto, sconta il fatto che la sua parte meno estrema, rappresentata da Forza Italia, paga la debolezza del partito a livello nazionale, che nel caso specifico dell’Emilia Romagna è ulteriormente aggravata dalla storica indifferenza che il partito di Roma ha sempre mostrato verso la componente emiliana, peraltro rappresentata da un ceto molto mediocre. Al tempo stesso, al suo interno si è rafforzata la componente della Lega (non a caso il candidato presidente era leghista) e questo ha probabilmente allontanato potenziali elettori più moderati del centrodestra. Le prime rilevazioni dei flussi, condotte dall’Istituto Cattaneo, relative alla città di Parma, ci dicono, infatti, che il 35% di coloro che avevano votato per FI ha optato per la Lega, mentre il 22% per l’astensione. Un fenomeno – il rafforzamento leghista dentro al perimetro della destra – che potrebbe segnalare, tra l’altro, una tendenza nazionale. Quindi, se una “non competitività” accentuata, come è stata in queste elezioni, difficilmente rende conto di un’astensione a sinistra, dove si è sempre partecipato anche quando era evidente che si sarebbe vinto, essa potrebbe essere risultata più significativa per una parte di elettori di centrodestra – scoraggiati dalla tendenza verso l’irrilevanza e l’insignificanza dell’offerta politica considerata a loro più prossima – , anche se tale “non competitività” assume rilevanza soprattutto se unita al carattere più estremo acquisito dal “pacchetto” della destra preso nel suo insieme (e nel caso emiliano sancito dalla candidatura unitaria dietro ad un candidato della Lega).

Questa ultima osservazione può in parte rendere conto dei circa 450 mila voti persi dal centrodestra tra le regionali del 2010, quando ancora Berlusconi era al governo, e quelle appena tenutesi. Naturalmente non tutti saranno andati in astensione, ma considerato il magro risultato dei Cinque Stelle (solo 33mila voti in più del 2010, dopo l’exploit con 443mila voti alle europee) e dell’Ncd alleato all’Udc (33mila voti, 46mila in meno della sola Udc nel 2010) è probabile che una parte non irrilevante di quei voti persi rispetto al 2010 corrisponda al non voto. Meno consistente è stata la perdita di voti del centrodestra rispetto alle europee di maggio, quando il suo peso e la sua situazione nel Paese risultano già ridimensionati e compromessi da un’impasse senza vie d’uscita. Essa ammonta a poco meno di 100mila voti e anche in questo caso è probabile che si sia tradotta in buona misura in astensione.

Ma la crisi del centrodestra e la sua cannibalizzazione da parte della Lega, nell’Emilia Romagna rossa, non esaurisce naturalmente la spiegazione. E’ evidente che a casa sono rimasti anche molti, ma davvero molti, elettori del Pd.

Rispetto al 2010 (857 mila voti) il calo è stato di circa 320mila voti e anche qui, alla luce dei magri risultati delle possibili alternative, l’astensione dovrebbe spiegare molto. Il centrodestra nella sua eterogenea composizione e il Pd si spartiscono dunque la maggior parte della “responsabilità” del verticale aumento dell’astensione tra il 2010 e il 2014, anche se appare più significativa la componente del centrodestra. Altra storia è quella del confronto tra queste regionali e le europee di sei mesi fa. Un milioni di voti in meno e 680 mila voti persi dal Pd, insieme ad un altro grande perdente (in termini di consensi), il M5S, che in questi mesi ha visto evaporare 284mila voti.

Cosa spiega questa emorragia di voti dal partito dominus dell’Emilia Romagna e, dunque, il peso che questa ha avuto nel produrre un’alta astensione? Se ci si sofferma sul confronto tra oggi e il 2010, due elezioni regionali, ma in un contesto politico nazionale diverso, si può rilevare l’importanza dell’indebolimento della figura di Berlusconi, ovvero il venir meno della contrapposizione basata sull’antiberlusconismo e dunque di una motivazione forte, quasi identitaria alla base di un voto “contro”. In realtà quella contrapposizione non era già più operante in maniera significativa anche nelle elezioni europee di maggio. Tuttavia, quelle elezioni presentavano comunque una contrapposizione e dunque un “nemico”: Matteo Renzi ha condotto la campagna di allora anche e soprattutto come una sfida contro il “tanto peggio, tanto meglio” del Movimento 5 Stelle in nome di una volontà di cambiamento “costruttiva”, una campagna che ha dato i suoi frutti, come dimostra il sorprendente e inaspettato risultato del Pd di Renzi e il ridimensionamento del partito di Grillo. Accanto e correlato a ciò, vi è il fatto che quelle consultazioni sono state vissute come un referendum sulla sfida di governo di Renzi e dunque hanno acquisito una forte valenza nazionale.

Ma altri fattori sono mutati rispetto al 2010 e al maggio 2014 per il Pd. Innanzitutto si è aperta una frattura al suo interno che evidentemente tende a ripercuotersi anche sull’elettorato, che nella sua componente più di sinistra e più vicina alle posizioni del sindacato, Cgil e Fiom innanzitutto (una componente certamente significativa nella “tradizionale” Emilia Romagna), fatica evidentemente a riconoscersi nella nuova segreteria, specie dopo i duri scontri degli ultimi mesi e il surriscaldamento – con reciproche accuse tra Renzi, da un lato, e la dissidenza del suo partito e alcuni leader sindacali, dall’altro – del confronto. E nemmeno va sottovalutata la possibilità che la Cgil non si sia sentita ‘coinvolta’ in queste elezioni regionali. Al tempo stesso, appare lecito ipotizzare che quella capacità del Pd renziano di attrarre voti centristi e anche di centrodestra, emersa dalle analisi del voto delle ultime europee, sia progressivamente venuta meno e quegli elettori, delusi dai partiti di riferimento, abbiano preferito stare a casa piuttosto che puntare di nuovo sulla carta di un Pd “modernizzato”, probabilmente a causa di un logoramento dell’immagine del premier e della sua narrazione sempre più “antagonizzante” e secondo molti osservatori anche sempre più slegata dalla vita reale dei cittadini italiani. Un logoramento relativo, poiché i consensi per Matteo Renzi rimangono significativi, anche se in costante calo.

Queste ultime osservazioni presupporrebbero, però, che il voto di queste ultime regionali sia stato fortemente condizionato dal contesto nazionale. E’ così? In parte ci pare di poter dire di sì. Anche se Renzi non ha giocato in prima persona in queste consultazioni, che però non ha snobbato, avendo chiuso la campagna insieme al candidato Stefano Bonaccini, il suo protagonismo sulla scena politica ha verosimilmente condizionato il voto nei modi in cui si è appena detto. Ma la questione merita di essere approfondita. Da un lato, infatti, il candidato Bonaccini, per il ruolo che svolge accanto al premier da quando gli si è avvicinato in seguito al cattivo risultato del Pd del febbraio 2013, non può che essere stato percepito come un indiscusso rappresentante del nuovo corso, con le potenziali ricadute negative rispetto al voto più di sinistra sopra descritte. Dall’altro, il suo profilo di uomo dell’ “apparato” e del “territorio”, la sua campagna in sostanziale continuità con il passato rappresentato da Errani (al quale è sempre stato molto vicino), nonostante la sua debole retorica di un rinnovamento senza rotture, possono avere scoraggiato quanti invece si aspettano dal Pd un cambiamento di direzione, anche e soprattutto nell’Emilia Romagna della “ditta”. In altre parole, non era il candidato in grado di incarnare una promessa di vero rinnovamento. Si è trovato così ad essere prigioniero del paradosso di doversi fare carico delle critiche al “renzismo di governo” senza essere in grado di rappresentare il “renzismo delle origini”, verso il quale è più sensibile un elettorato moderato. In questo caso, dunque, la dimensione nazionale si è intrecciata a quella locale.

Al tempo stesso, Stefano Bonaccini non è apparso nemmeno come il candidato ideale per un’epoca dominata dalla personalizzazione della politica. Certamente molto noto, non ha però la statura del leader e tanto meno di un leader capace di attrarre e sedurre; come si è detto è soprattutto un uomo di partito, soprattutto del genere “partito-ditta”. La figura di Renzi ha condizionato il suo ruolo di candidato, ma senza “trasmettergli” la forza del carisma. Per meglio capire questo punto, si pensi a quanto è invece avvenuto nel caso della Lega. Anche se il candidato leghista alla presidenza Alan Fabbri è abbastanza conosciuto in regione, tuttavia il suo successo (il 29,85 dei consensi, con la Lega secondo partito in regione con il 19, 42) è da ascrivere soprattutto all’attivismo di Matteo Salvini, che si è speso in prima persona per questo voto con il suo discorso di rottura e “antipolitico” e tutta la sua forza mediatica (per settimane ogni giorno e anche più volte nello stesso giorno è apparso in televisione, spesso con una felpa sulla quale campeggiava “Emilia”). E non è un caso che la mattina successiva alla giornata elettorale sia stato soprattutto lui a presentarsi in Tv per rivendicare il successo. Questo non è accaduto nel caso Renzi-Bonaccini. Bonaccini è stato il protagonista della sua campagna (una campagna estremamente sottotono, preceduta da primarie frettolose che hanno coinvolto pochissimi cittadini), con il suo profilo, però, scarsamente adeguato alla competizione.

In conclusione, non vi è dubbio che il voto in Emilia Romagna invii un messaggio generale di disaffezione verso la politica e i suoi protagonisti. Per Forza Italia è solo una conferma del suo stato comatoso, uno stato che favorisce e probabilmente favorirà in futuro un protagonismo della Lega che, a sua volta, costituisce però un ulteriore impedimento (accanto al permanere di Berlusconi alla guida del suo partito) per la ricostruzione di un centrodestra di governo. Per il Pd e per Renzi è un segnale che il rinnovamento è un affare complesso da gestire e richiede qualcosa di più che la spavalderia, soprattutto richiede la messa a punto di una narrazione che sappia convincere e includere e forse anche un’azione di governo meno improvvisata e erratica.

Quel che è certo è che sottovalutare quel messaggio, magari consolandosi con alcuni luoghi comuni molto diffusi nell’analisi post-voto, come l’idea che la tendenza ad una affluenza calante sia la normalità, come se crollo e tendenza fossero la stessa cosa e come se nelle altre democrazie europee percentuali di partecipazione così basse fossero la norma (cosa che non è, basta guardare i dati e si scopre che percentuali sotto al 50% sono l’eccezione e non sono pochi i casi che superano nelle consultazioni locali e regionali il 60 e 70 per cento), può essere molto pericoloso per la nostra democrazia.

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