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Roccaforte e cassaforte del Partito democratico, come lo fu del Pci, del Pds e dei Ds, l’Emilia Romagna da molti, troppi anni rappresenta al meglio un potere che ormai è finalizzato soprattutto alla propria sopravvivenza. Un potere politico-economico, un potere che sovrappone partito e istituzioni, che sempre più pone le seconde al servizio degli interessi del primo, o meglio degli interessi della sua oligarchia, un potere che si nutre anche di accondiscendenza interessata, arroganza e anche protervia. Ne ha fatta una superlativa ricostruzione in questi giorni Marco Damilano.

Quel potere, dopo il disastro per il Pd delle elezioni del febbraio 2013, ha compreso che per mantenersi avrebbe dovuto scendere a patti con chi ormai appariva come l’unico in grado di portare il partito fuori dalle secche in cui si era arenato: Matteo Renzi. E così, pezzo dopo pezzo, con non troppe eccezioni, si è riposizionato. Acutamente Damilano nel pezzo citato ha definito della “rottamazione” la prima fase di adesioni al renzismo e del “trasformismo” la seconda. Stefano Bonaccini, abile e appassionato segretario del Pd emiliano-romagnolo, appartiene a quest’ultima. La sua adesione al renzismo difficilmente può essere interpretata come un mero percorso individuale, essa appare piuttosto come congeniale a quel riposizionamento di cui si è detto, che naturalmente vede protagonista anche il presidente della Regione uscente Vasco Errani.

In questi mesi, dopo la sua ascesa fulminea a Palazzo Chigi attraverso la sbrigativa liquidazione di Enrico Letta e senza un voto popolare, Renzi ha smorzato la propria carica innovativa, nonostante la sua retorica roboante e il suo continuo gettare guanti di sfida a nemici generici e non chiaramente identificati. Il caso della regione rossa per eccellenza si è a questo proposito rivelato una cartina di tornasole: qui il premier ha mostrato in modo chiaro la tentazione di poggiare su poteri sicuri e consolidati, pronti a dargli il loro sostegno, forse in cambio di un mutamento che almeno in certi contesti (nel caso specifico l’esercizio del potere del partito sul territorio) rimanga solo superficiale. Come interpretare altrimenti il sostegno alla candidatura del sindaco di Imola (nonché, come ha osservato Damilano, capo del patto di sindacato che controlla la multiutility Hera e nomina il Cda) Daniele Manca, voluta dal duo Errani-Bersani?

Poi le cose sono andate diversamente, la situazione è precipitata e oggi il duello per la guida dell’Emilia Romagna (ricordiamo che saranno le primarie del 28 settembre a decidere il Presidente della Regione, risultando il centrodestra “non pervenuto”) è tra Stefano Bonaccini e l’ex sindaco di Forlì, lo storico Roberto Balzani.

Balzani rappresenta la sfida a questo potere che non vuole cambiare, ma che prova a mimetizzarsi, così lui esplicitamente si pone e così si è posto anche negli anni in cui è stato amministratore. Di Bonaccini si è detto. La scelta che scaturirà da quel confronto avrà ricadute significative sul futuro dell’Emila Romagna; non esistendo alcuna alternativa al Pd, dal Pd stesso potrà venire o un superficiale maquillage che manterrà intatte le coordinate del potere esistente o una sfida a quel potere.

Ma le ricadute saranno tutt’altro che irrilevanti anche per la politica nazionale. Una Emilia Romagna in versione “gattopardo” costituirà un puntello al potere di Matteo Renzi, ma a quel potere che tanto più si radica, tanto meno viene finalizzato a produrre risultati concreti per il Paese. Un’Emilia Romagna così rappresenterà forse il passaggio definitivo del renzismo al gattopardismo come sua fase “suprema” (ma negatrice della natura originaria della sfida renziana). Un’Emilia Romagna diversa potrebbe creare qualche problema alla versione dorotea del Renzi romano, ma forse costringerlo a ricordarsi i motivi per cui all’inizio aveva suscitato tante intense e sincere speranze.

3 thoughts on “Il gattopardismo fase suprema del renzismo? All’Emilia Romagna la sentenza

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